17 anni sono un periodo di tempo molto lungo nella vita di un logo. Red Hat ha rivisto il suo l’ultima volta nel 2000. Ai tempi, la mission dell’azienda era quella di prendere d’assalto di un mercato tecnologico di fatto chiuso, costruito su pochi grandi monopoli.
Il logo scelto allora, a metà tra il supereroe e l’investigatore privato, rifletteva le origini della storia aziendale, soprattutto la strategia di mercato iniziale, pensata per portare l’open source nei grandi datacenter, evitando con cura le barriere costruite da chi invece basava il suo business su tecnologie proprietarie.
Oggi, Red Hat è leader mondiale nelle tecnologie open source di livello enterprise. E l’open source è ovunque, anche nei datacenter più moderni e avanzati, nonché più critici, al mondo.
Il logo aveva molto senso quando Red Hat era di fatto un “agente segreto” del cambiamento. Ma oggi, in ottica di apertura, trasparenza e condivisione, di fatto il messaggio che il logo trasmette va aggiornato, senza dimenticare le sue origini rivoluzionarie.
Con questo obiettivo, Red Hat ha lanciato già a fine dello scorso anno il progetto Open Brand. Obiettivo ultimo quello di rinnovare il logo, puntando sull’evoluzione mantenendone la riconoscibilità.
Il primo passo è stato un sondaggio condotto tra partner, clienti e tutti coloro che hanno un interesse nella nostra identità. Dei partecipanti, il 67% ha indicato il cappello come elemento più importante del logo, mentre il 18% ha scelto il colore rosso come più emblematico. L’81% ha dichiarato che il Fedora è il cappello che meglio rappresenta Red Hat. Nient’altro ci è arrivato vicino. E, soprattutto, il 40% ritiene che ‘l’apertura’ sia la qualità principale da associare a Red Hat, seguita dalla ‘fiducia’ al 16%.
Il processo di definizione è in pieno svolgimento. Il Red Hat Summit statunitense di maggio è stato la prima occasione in cui clienti e partner si sono confrontati fisicamente con le proposte iniziali. Proposte che sono state man mano ridotte, oltre che raffinate e fatte evolvere.