Di Miriam Bressan, Manager Solution Architecture di Red Hat
Quando si parla di uguaglianza, il dibattito si accende: si parla di quote rosa, di scontro tra sessi e potenziali disuguaglianze. La realtà è che le donne sono motivate, capaci di ottime prestazioni e, soprattutto, altamente qualificate. Nonostante questo, viviamo ancora una discriminazione strutturale: veniamo bloccate in posizioni che sono al di sotto del nostro livello di competenza. E non solo prima di accedere alla famosa “stanza dei bottoni”, ma a tutti i livelli manageriali. Come è possibile distribuire più equamente le posizioni di leadership? È una domanda che la nostra società si pone da anni. Alcuni datori di lavoro hanno fissato volontariamente degli obiettivi, mentre in alcuni Paesi sono state emanate norme specifiche in merio – in Italia la legge Golfo-Mosca, approvata per la prima volta nel 2012, impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo dei posti previsti negli organi di governo.
Le opinioni sull’imposizione delle quote possono essere differenti, ma trovo irritante che, specialmente in settori dominati dagli uomini come l’informatica, la semplice presenza di una donna con un ruolo di sviluppatrice o consulente sia lodato. Perché? Non ho mai sentito dire “è fantastico che abbiamo così tanti uomini in squadra”. Dal punto di vista delle donne, questo modo di pensare non dà alle loro prestazioni l’apprezzamento che meritano. Non abbiamo ottenuto il lavoro perché siamo donne, ma perché siamo brave. E questo argomento non si applica solo al genere, ma anche a tutti gli altri criteri di diversità come l’età, l’origine, la religione o l’orientamento sessuale.
Vivere la diversità, o almeno poterne discuterne, non è più un’operazione cosmetica in molte aziende, ma una motivazione reale per creare una cultura uguale e rispettosa. Una tale cultura è aperta a idee, approcci e prospettive diverse. Perché che si tratti di prendere decisioni o di risolvere conflitti, conoscere i diversi modi di pensare e di comportarsi e capire il potere complementare di questa diversità può cambiare radicalmente il lavoro e portare a risultati completamente nuovi. Dopo tutto, le innovazioni nascono solo quando si pensa “fuori dagli schemi”. Un team che sia il più vario possibile ha i migliori presupposti per avere successo, ed è per questo che non dovrebbe importare chi nello specifico porta un’idea. Tutti dovrebbero sentirsi liberi di presentare liberamente le proprie proposte: una cultura positiva è anche questo – ed è l’unico modo per creare innovazione. Questo principio di una cultura aziendale inclusiva è tipico del mondo open source e può essere applicato alla selezione dei candidati: il lavoro dovrebbe andare semplicemente alla persona più qualificata per esso.
Ma affinché le donne e altri gruppi minoritari non vengano esclusi fin dall’inizio, le aziende devono rompere gli schemi inconsci. Sappiamo tutti fin troppo bene che le decisioni sulle nomine non si basano solo su criteri oggettivamente misurabili, ma che ci piace sempre scegliere persone che sono come noi. Le aziende non hanno quindi altra scelta che formare i loro team al riconoscimento e alla gestione di pregiudizi (bias) inconsci, affinché possano prendere decisioni realmente libere. Ma gli stereotipi derivano anche dalla scelta delle parole negli annunci di lavoro. Gli aggettivi che descrivono qualità richieste come analitico o assertivo creano immagini nella nostra mente che hanno un effetto deterrente – anche se sono presumibilmente neutrali rispetto al genere. Se vuoi i migliori talenti, devi stare attento al linguaggio.
Il cambiamento inizia nella mente, si dice spesso. E credo che in Red Hat siamo su una buona strada. Un motivo è certamente la cultura open source, basata sulla condivisione e sul confronto. Una cultura da cui tutti i settori possono prendere esempio.