Il trasferimento di un data center è un’operazione molto complessa e, indipendentemente dalla modalità con cui si scelga di gestirla, nulla può essere lasciato al caso.
Dalla predisposizione di apparati di scorta per l’eventualità in cui i macchinari una volta installati nella nuova sede non ripartano, alla pianificazione della gestione delle risorse umane, dall’individuazione e il test di un percorso stradale ottimizzato per non perdere tempo, fino alla definizione al millimetro degli spazi in cui dovranno passare le apparecchiature e gli operatori: tutto deve essere previsto e studiato nel minimo dettaglio.
Per questo è importante che l’azienda che decide di ‘traslocare’ il proprio data center, che si tratti di una piccola realtà o di un provider, si affidi a un partner che abbia l’esperienza necessaria per guidarla in queste valutazioni, in modo che alla riaccensione del data center tutto funzioni a dovere senza interruzioni per l’operatività e senza conseguenze anche economiche.
Rosenberger OSI dal mese di luglio offre in Italia servizi di consulenza a tutto tondo per supportare le imprese nelle loro esigenze relative alla gestione dei data center, non solo per quanto riguarda il cablaggio, ma, ad esempio, anche per operazioni delicate come quella del trasferimento del centro dati.
Abbiamo parlato di queste tematiche con Paolo Parabelli, Sales Manager di Rosenberger OSI in Italia, che esordisce: “Un’azienda o un provider possono avere necessità di trasferire il proprio data center essenzialmente per due motivi: o perché ci si rende conto che l’infrastruttura non è adeguata ed efficace (eventualità che si verifica spesso se pensiamo che molte imprese hanno centri dati non adeguati con strutture ricavate solitamente in ambienti ad uso uffici) oppure se gli spazi non sono più sufficienti”.
Nel caso si decida di trasferire il proprio data center è necessario stilare un progetto super dettagliato. Quali sono i rischi di non farlo?
“Se si ha un’infrastruttura minimamente articolata è necessario fare un’attenta pianificazione di tutte le fasi di trasferimento del data center perché non si può correre il rischio che alla riaccensione dei macchinari nella nuova location qualcosa vada storto e il data center non riparta.
Un data center è fatto di tutta una serie di dispositivi che lavorano ininterrottamente da anni e per trasferirli devono essere spenti, traslocati e poi riaccesi nella nuova struttura. I tempi per il trasferimento sono molto stretti e ogni variabile va attentamente valutata. La pianificazione, inoltre, se fatta correttamente, deve prendere in considerazione le evoluzioni future della struttura adottando un approccio di ottimizzazione degli spazi da subito per evitare che la nuova area si riempia in fretta.
Il valore aggiunto di un partner come Rosenberger OSI deriva proprio dalla visibilità che ha su tutti i passaggi necessari da mettere in atto, elementi che al cliente o all’utilizzatore finale sfuggono perché non guidati dalla necessaria esperienza”.
Una pianificazione più che minuziosa è quindi necessaria. Ma come deve essere una pianificazione per essere attenta?
“La prima fase della pianificazione del trasferimento di un data center consiste nella descrizione dello scenario: in pratica occorre fare una “fotografia” di quello che è lo stato dell’arte attuale. Per uno spostamento ottimizzato delle risorse si deve sapere nel minimo dettaglio come è fatto il data center, quali apparati ci sono, se le licenze sono ancora valide, se le macchine, i server, lo storage e i sistemi di raffreddamento funzionano, oltre ovviamente al cablaggio. L’hardware deve essere mappato perché dovrà essere riproposto nella nuova location in maniera identica, al netto di eventuali miglioramenti o aggiornamenti (tech refresh)”.
Nella fase successiva si parte con la progettazione del trasferimento. Il cliente dovrà decidere se procedere secondo un modello a ‘Big Bang’ o in più ondate. Spiegaci meglio…
“Con il modello a ‘Big Bang’ il data center viene spostato in una sola volta, di solito nel weekend, di modo che il lunedì mattina sia tutto pronto per permettere all’azienda di ripartire, mentre nel modello a ondate il trasferimento viene effettuato in diversi step, tipicamente in più weekend di fila, spostando una sezione alla volta”.
Quale modello preferire?
“Il ‘Big Bang’ permette di ripartire in un solo weekend ma ha il problema che spostando tutto in una volta e in tempi super ristretti tutto deve essere perfetto: gli apparati attivi che per lunghi anni sono stati accesi potrebbero non ripartire nella nuova sede.
Altre difficoltà derivano dal fatto che vanno rispettate anche le strutture fisiche che si incontrano durante il trasferimento: se così per il poco tempo a disposizione decido di spostare i rack senza smontarli e tenendo al loro interno gli apparati, devo essere certo che nel nuovo data center ci sia lo spazio per introdurre i rack spostandoli su un muletto e per gli operatori che si occupano del trasporto. Analogamente bisogna scegliere il percorso stradale il più breve possibile studiando i flussi di traffico. Occorre poi avere anche una buona pianificazione del personale perché tutti gli esperti devono essere pronti e disponibili nel tempo che si è stabilito.
Si gioca con il tempo e il tempo va ottimizzato. La procedura di pianificazione prende in considerazione tutti questi aspetti, viene collaudata e verificata”.
Il modello a ondate invece?
“Questo tipo di modello è più gestibile perché effettuandosi in diversi step consente ad esempio di spostare prima i sistemi di test, che sono quelli maggiormente collaudati e mettono meno a rischio l’intero contesto. D’altro canto questo metodo è molto time-consuming e soprattutto ad alta intensità di personale.
Rosenberger OSI si occupa di fare consulenza al cliente mostrando pro e contro di ogni decisione ma alla fine è il cliente che decide quale strada intraprendere”.
Come accennavi prima, molte aziende colgono l’occasione del trasferimento per un refresh tecnologico. Perché è opportuno valutarlo con attenzione?
“Senza dubbio il trasferimento del proprio data center è l’occasione ottimale per procedere con un ammodernamento dell’infrastruttura e degli apparati. Molto spesso, infatti, quando le cose nel data center funzionano, vengono lasciate come sono ma è bene ricordare che l’hardware diventa vecchio, soprattutto dove ci sono delle parti in movimento.
Per ovviare a questo problema è buona norma, durante il trasferimento, portare sempre con sé pezzi di ricambio e garantirsi tutta l’accessoristica necessaria. Ma a parte questo il cliente può decidere di procedere con un refresh tecnologico per aggiornare e ottimizzare gli apparati senza dover affrontare un’apposita interruzione del servizio, che è già sospeso in occasione del trasloco. Si può cogliere quindi l’occasione per rivedere tutto”.
Quali sono le apparecchiature attive e quelle passive che appaiono più a rischio durante un trasferimento?
“Gli apparati più problematici come dicevo sono quelli attivi. Se pensiamo invece al cablaggio, la decisione più saggia è reinstallarlo ex novo nella fase antecedente al trasferimento, anche se esiste l’opzione di spostare il vecchio cablaggio nel nuovo data center (ma attenzione alla pulizia delle terminazioni).
Gli apparti attivi, invece, dopo essere rimasti accesi per molti anni, una volta che vengono spenti possono saltare nel momento della riaccensione. Da qui la necessità di avere sempre pezzi di ricambio.
Problemi possono esserci anche lato software perché alla riaccensione il boot potrebbe non essere eseguito in maniera corretta”.
Una volta pianificato tutto nei minimi dettagli e deciso il modello da adottare arriva il momento del trasferimento vero e proprio…
“La cosa più importante in questa fase è avere l’accortezza che tutto funzioni anche in base ai tempi (Big Bang o a ondate). Si gioca infatti sempre con tempi ristretti e per questo è necessario pianificare precedentemente ogni minimo dettaglio”.
Essendo il trasferimento di un data center un’incognita ed essendo i tempi molto ristretti è importante affidarsi a partner che hanno la giusta esperienza per pianificare il tutto al meglio evitando per quanto è possibile che alla riaccensione i sistemi non funzionino più. Rosenberger OSI propone queste tematiche con i suoi servizi di consulenza, che sono ora disponibili anche per le aziende italiane. Cosa fa Rosenberger in concreto e come è stata accolta in Italia la nuova veste della società?
“Il fatto che ora anche in Italia Rosenberger OSI si proponga come un vero e proprio consulente sulle tematiche del data center, non solo relativamente al cablaggio, è stato accolto con molto interesse e sono in attesa, man mano che partiremo concretamente, di feedback sempre più robusti.
Rosenberger OSI si differenzia così da chi si occupa di installazione dei cavi perché accanto a queste operazioni, che anche noi ovviamente continuiamo a fare, ora ci proponiamo come guida per il cliente fornendogli il supporto per tutte le sue esigenze di organizzazione o trasferimento di data center nell’ottica anche di un’ottimizzazione futura e un efficientamento delle risorse. È un valore aggiunto che solo noi portiamo tra tutti i player attivi nel cablaggio”.
Prevedete che con l’affermarsi del processo di digitalizzazione le aziende avranno sempre più necessità di trasferire i propri data center? È un mercato in espansione?
“Quello dei data center è un mercato in forte espansione: la necessità di avere data center sempre più idonei e performanti è alla base del processo di trasformazione digitale e questo vale sia per le piccole aziende sia per i grandi provider. Si tratta quindi di un mercato in forte crescita anche se in Italia ovviamente non c’è il dinamismo che possiamo trovare ad esempio a Londra, a Francoforte o a Parigi, che sono i principali hub europei”.
Come mai l’Italia si trova spesso in una posizione di fanalino di coda rispetto agli altri Paesi europei?
“Il nostro Paese ha un tessuto imprenditoriale unico e peculiare perché la maggior parte delle aziende italiane sono piccole o addirittura micro-imprese dove vige ancora la legge del prezzo più basso.
Mentre altrove la spesa per il cablaggio viene vista come un investimento per migliorare i processi e avere più margine, in Italia questa mentalità tarda ancora ad affermarsi. Un po’ come avviene, ad esempio, anche per le tematiche relative alla cybersecurity.
Altro elemento importante è che in Italia manca anche l’effetto trainante del Governo perché se negli altri Paesi la PA è la prima ad investire trascinando i privati, in Italia manca ancora un po’ questa sensibilità, anche se sono sicuro che nel corso del tempo ci si arriverà”.