Il confine tra privacy e sicurezza è spesso labile: si tratta infatti di diritti irrinunciabili che possono entrare in conflitto tra loro perché può capitare che non si capisca dove è giusto che inizi uno e finisca l’altro. E’ questo il caso della disputa tra FBI e Apple in relazione al telefonino del killer di San Bernardino, che lo scorso 2 dicembre ha ucciso 14 persone in California.
I federali sono infatti riusciti a sbloccare autonomamente “facendosi assistere da una terza parte” lo smartphone di Syed Rizwan Farook, dopo che il colosso di Cupertino si era opposto alla richiesta per una questione di privacy.
“Dal punto di vista legale non è detto che la battaglia sia finita” spiega al New York Times Esha Bhandari, avvocato dell’American Civil Liberties Union (Aclu), sottolineando che il governo potrebbe rifiutare di condividere il metodo utilizzato per “aprire” il dispositivo con Apple, contrariamente a quanto avevano chiesto da Cupertino, decidendo che l’informazione è “top secret”.
La posizione di Apple relativamente alla questione è invece chiara: “Fin dall’inizio abbiamo contestato la richiesta dell’Fbi di costruire una backdoor nell’iPhone credendo fosse sbagliato e un pericoloso precedente. Questo caso non avrebbe mai dovuto essere aperto. Crediamo profondamente che le persone negli Usa e in tutto il mondo abbiano il diritto alla protezione di dati, sicurezza e privacy. Sacrificare un principio in nome di un altro pone le persone e i paesi in una posizione di maggiore rischio”.
“Questo caso – conclude Apple – ha sollevato tematiche che meritano un dibattito nazionale sulle nostre libertà civili, la nostra sicurezza collettiva e la privacy. Apple resta impegnata a partecipare a questa discussione. Noi continueremo ad aiutare le forze dell’ordine con le loro indagini, come abbiamo sempre fatto, e continueremo ad aumentare la sicurezza dei nostri prodotti mentre le minacce e gli attacchi contro i nostri dati diventano più frequenti e più sofisticati”.