A cura di Susan Cole, Senior Product Marketing Manager at Dynatrace
Il prossimo mese ricorrerà il 47esimo anniversario dalla missione Apollo 13. Un evento memorabile, la cui portata può essere compresa anche da chi non ha vissuto direttamente la vicenda, grazie al bellissimo film di Ron Haward del 1995 che coglie magistralmente la suspense, la paura, la speranza e i rischi percepiti da tutte le persone coinvolte.
La missione Apollo 13 è stata molto probabilmente una vittima casuale della corsa spaziale, che ha visto la NASA schierata, insieme a tutti i leader politici e militari degli Stati Uniti nell’attuare un programma incredibilmente aggressivo contro l’Unione Sovietica temendo le possibili conseguenze di non essere i primi.
L’urgenza, spesso, porta ad annullare la cautela, considerando che tutto sommato “un buon piano oggi è meglio di un piano perfetto domani”. Questo è ciò che avvenne nel 1960 e in parte accade anche oggi nella fase di grande cambiamento che stiamo affrontando con la trasformazione digitale.
“Essere i primi” è un imperativo fondamentale anche nel business e vediamo ogni giorno come stia progressivamente emergendo un’urgenza intorno al concetto di digitale. Ma, a differenza della corsa allo spazio, l’obiettivo finale di questo “essere i primi” per le aziende non è semplicemente arrivare in un luogo, ma intraprendere dei processi più lunghi associati ad applicazioni strategiche che da quel momento in poi devono lavorare al meglio.
La visione condivisa
Il giorno del lancio porta con sé un’ansia enorme rispetto a tutto quello che può andare storto. Quando capita un imprevisto la domanda iniziale è sempre la stessa: “Cosa è successo? Qual è lo stato?”
Nel film Apollo 13, gli ingegneri della NASA faticano a mantenere la calma davanti al disastro che si consuma sulle loro console. Ognuno monitora un diverso aspetto della missione – chi le operazioni di volo, chi lo stato della navicella spaziale Odyssey, i dati sugli astronauti, e altro – ma collettivamente non sono in grado di vedere e capire cosa sta succedendo.
Sono passati quasi 50 anni ma questo è proprio quello che ancora accade nel mondo dell’IT: gruppi di lavoro che operano in silos separati e spesso hanno poca visibilità su ciò che realmente sta accadendo quando avviene un’interruzione nella delivery di un servizio. Faticano ancora oggi a valutare rapidamente la portata del malfunzionamento, analizzare i dati provenienti da varie componenti separate, unificare le conclusioni più disparate, e, infine, (forse) determinare la causa principale del problema.
Il fallimento è un’opzione possibile?
Nel film, quando si parla delle varie ipotesi per salvare i tre astronauti, il direttore di volo Gene Kranz dice al suo team: “Il fallimento non è un’opzione”.
Possiamo sostenere la stessa cosa anche per le iniziative strategiche di digital business: fallire nella trasformazione digitale significa avviarsi verso l’estinzione.
La maggior parte dei professionisti IT ammette, però, che alcuni gradi di fallimento sono praticamente inevitabili se si considerano i sistemi che devono sostenere la delivery dei nuovi servizi digitali.
In effetti, dal punto di vista dell’esperienza dell’utente, il fallimento avviene perché i malfunzionamenti, come i tempi di risposta lenti e intermittenti, le immagini che non vengono caricate, le connessioni con terze parti fallite che portano a interrompere le transazioni e altri disagi, sono frequenti.
La vera domanda è se e come tali piccoli gradi di fallimento sono percepiti all’intero dell’organizzazione come veramente capaci di avere un impatto sul successo dell’iniziativa globale. A mio avviso molto spesso la loro portata non viene colta, anche perché molte organizzazioni non ne hanno visibilità.
Se non si sta monitorando la delivery dei servizi rispetto alle interruzioni e ai degradi prestazionali – e quindi il relativo impatto sulle conversioni, registrazioni, iscrizioni, pagamenti, e altro – non si può nemmeno sapere che c’è un problema e non sarà possibile scoprirlo fino a quando non avverrà una catastrofe e si sarà costretti a lanciare il famoso segnale: “Houston abbiamo un problema!”.
Visibilità in comune per una gestione migliore
Nel 1960 non era pensabile per la NASA incorporare una visibilità e gestibilità migliore nelle proprie operation. Il computer nel modulo di comando dell’Apollo 13 aveva una memoria da 64Kbyte e funzionava a 0.043MHz, il mio iPhone 6 è 32.600 volte più potente di ciascuno dei mainframe IBM che si trovavano presso il Goddard Space Flight Center!
Tutto questo mi fa ripensare alla scena del film in cui i responsabili delle operazioni di volo si rendono conto di dover urgentemente ricalcolare la traiettoria di rientro della navicella spaziale. All’unisono, tutti gli ingegneri raggiungono la propria tastiera e iniziano ad armeggiare con i regoli calcolatori. Li fanno proprio scorrere a mano, perché ai tempi non era nemmeno immaginabile un’applicazione interattiva in grado di automatizzare i calcoli complessi.
Qui, quindi, l’analogia cade, perché oggi le organizzazioni IT possiedono una potenza di calcolo ai tempi inimmaginabile e con la moderna tecnologia di gestione delle applicazioni si può fare veramente molto per rispondere, e addirittura, impedire a priori che la delivery dei servizi vada incontro a fallimenti e degradi.
In conclusione, oggi il legame tra i risultati di business e le variabili che le operazioni IT implicano si può osservare e comprendere ed è anche possibile allineare gli obiettivi e le best practice.
Non si tratta di una scienza spaziale: per garantire il successo delle iniziative digitali basta semplicemente l’Application Performance Management (APM).