L’Italia dell’industria si è distinta fin dall’origine per la sua “vocazione all’export”, tendenza oggi più che mai confermata a causa della crisi economica particolarmente pesante e durevole sul fronte interno. Così nel 2012 il nostro Paese ha generato 113 miliardi di euro di surplus commerciale (quinto nel mondo dopo Corea e Cina) e secondo il Trade Performance Index 2011 (Unctad/WTO – G20), che registra le posizioni di primato dei diversi Paesi nell’export in ben 14 settori di riferimento, è il secondo produttore più competitivo dopo la Germania. Lo ha rivelato il noto economista Marco Fortis di Fondazione Edison, docente dell’Università Cattolica ed editorialista del Sole 24 Ore, durante la seconda edizione di FIMI-Forum Internazionalizzazione Made in Italy, evento organizzato da Messe Frankfurt nella sede milanese del Sole 24 Ore. Questa “tappa” del “cammino” che Messe Frankfurt propone al pubblico in attesa dell’edizione 2014 di SPS IPC Drives Italia, si è focalizzato sul tema “Competitività globale del settore manifatturiero in Italia – Sviluppo e internazionalizzazione”: “Mai come in questo momento avvertiamo una forte dicotomia fra crescita e competitività. A livello mondiale, infatti, i Paesi il cui PIL è cresciuto meno in questi ultimi tre anni sono Italia, Giappone e Germania, proprio quelli più ‘industrializzati’. Il manifatturiero dunque non basta più, da solo, per far crescere il PIL. Inoltre, alcuni Paesi in passato sono cresciuti troppo in modo non virtuoso, Grecia e Spagna per dirne due, facendo sì lievitare i loro PIL ma con essi anche il debito” ha analizzato Fortis. “Invece, anche durante la crisi, il debito pubblico italiano è aumentato meno che in altri Paesi. Oltretutto, i dati ci dicono che il fatturato generato dall’export italiano ha già raggiunto i risultati pre-crisi e questo testimonia indiscutibilmente che le aziende del nostro Paese sono competitive: il problema della competitività semmai riguarda il sistema-Italia”. Gli ha fatto eco Giuliano Busetto, presidente di Anie Automazione: “Negli ultimi cinque anni abbiamo registrato un calo del fatturato generato all’estero da parte delle aziende associate, tradizionalmente votate all’export. Servirebbero interventi a livello di sistema-Paese per sostenere e valorizzare la nostra industria, perché un Paese senza manifattura non può vivere”. Sandro Bonomi, presidente di Anima (Federazione delle Associazioni Nazionali dell’Industria Meccanica Varia ed Affini), ha precisato: “L’export è il fiore all’occhiello della meccanica italiana. Il fatturato del settore nel 2012 si è assestato sui 40 miliardi di euro di cui il 57% generato dall’export e i dati raccolti dall’Ufficio Studi Anima relativi a settembre 2013 fotografano una situazione stabile, con un +1,1% nelle esportazioni. In particolare, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Australia e Cina assorbono da sole oltre 2,1 miliardi di euro di meccanica made in Italy”.
E in un contesto come l’attuale, dove internazionalizzarsi è d’obbligo per sopravvivere, le piattaforme fieristiche possono davvero offrire molto, in quanto luoghi dove “toccare con mano” i prodotti e intrecciare relazioni. Inoltre, se l’imprenditoria italiana ha tutte le carte in regola per competere a livello internazionale, è anche vero che per essere più forte contro i colossi stranieri le sarebbe utile “fare rete”, unendo le competenze per trattare, per esempio, con i fornitori o per intraprendere iniziative di business comuni. In questo le manifestazioni fieristiche possono dare un notevole contributo, a patto di diventare reali momenti di cultura e sviluppo del mercato. Come ha sottolineato Detlef Braun, membro del consiglio direttivo della tedesca Messe Frankfurt, “il sistema fieristico tedesco è già partner di almeno 1.500 le aziende italiane, di dimensioni grandi ma anche medio-piccole. Queste ultime costituiscono la spina dorsale del Paese, creano lavoro e sono motore dell’innovazione; esse da tempo si affidano con soddisfazione alle nostre fiere per presentarsi al mercato tedesco ed estero”.
Un caso in controtendenza
È proprio un’azienda attiva nel campo dell’informatica, con la produzione e commercializzazione di armadi per datacenter, a costituire l’esempio ‘sui generis’ di FIMI. Si tratta infatti del caso di un Gruppo tedesco che, avendo individuato un’eccellenza italiana nel settore del condizionamento, ha deciso di investire nel nostro Paese: “Rittal è una realtà tedesca che ha compiuto in Italia una scelta strategica: investire su un sito produttivo, quello di Valeggio sul Mincio in
provincia di Verona, per farne il proprio “fiore all’occhiello” per il business del condizionamento” ha testimoniato Edgardo Porta, direttore marketing di Rittal Italia. “Dopo l’acquisizione dell’impianto nel 2000 Rittal ha avviato un piano di integrazione atto a combinare l’eccellenza tecnologica italiana con la metodologia tedesca. Il primo investimento è arrivato nel 2003 con l’ampliamento della produzione al fine di tenere il passo con i ritmi imposti dal mercato: in tre anni il livello produttivo è aumentato di pari passo con una riduzione del 58% dei reclami. Il sito si è quindi trasformato nell’undicesima unità produttiva del Gruppo e nel 2011-2012 sono arrivati altri investimenti per un totale di 1,2-1,3 milioni di euro in sistemi di automazione per aumentare la capacità e tenere la produzione in Italia senza delocalizzare. In sei mesi è stato assunto nuovo personale e dal 2009 al 2012 l’azienda ha raddoppiato il fatturato da 31 a 62 milioni di euro” ha concluso Porta.
I sistemi di condizionamento rappresentano oggi fra i principali elementi di differenziazione dell’offerta di armadi Rittal per datacenter: “Con l’avvento di soluzioni cloud e informatiche sempre più spinte è cresciuta la necessità di adottare armadi di contenimento allo stato dell’arte, dove il raffrescamento dei server è cruciale per mantenere l’ottimo funzionamento degli apparati”.