A cura di Lori MacVittie, Principal Technical Evangelist di F5 Networks
Sono passati 10 anni da quando Amazon ha rivoluzionato il mondo digitale introducendo Amazon Web Services, o, come oggi lo definiscono la maggior parte di noi, il cloud pubblico. Da allora, il panorama del cloud si è evoluto sempre più, contemplando oggi un’enorme varietà di nuovi modelli che si fondono con quelli vecchi e con i data center tradizionali, offrendo una gamma davvero ampia di scelte, che rientrano tutte nell’incredibilmente ampio ombrello del “cloud”.
Poco dopo il debutto del cloud pubblico arrivò il cloud privato, ponendo l’attenzione sull’importanza che le aziende devono riservare al controllo e alla sicurezza. Dato che non si aveva ancora certezza di quali sarebbero state le ripercussioni del cloud pubblico e della condivisione delle risorse, in particolare rispetto agli aspetti chiave del business come le prestazioni delle applicazioni e i requisiti normativi in materia di controlli di sicurezza, il cloud virtuale privato offriva qualche rassicurazione, fornendo la “privacy” unita alla flessibilità del cloud pubblico.
Non appena il cloud è diventato “il protagonista”, gli Application Service Provider (ASP) si sono reinventati come cloud sotto il nome di Software as a Service (SaaS). Alle aziende, da sempre combattute sulla scelta tra “sviluppare internamente o acquistare”, il SaaS ha offerto una terza opzione: “affittare”. La maggior parte dei guadagni offerti dal cloud nei primi anni derivava proprio dal modello SaaS. Infatti, anche se gli esperti hanno ritenuto il cloud di per sé un successo innegabile, in realtà è stato il SaaS a sostenere l’intero mercato per anni, mentre le organizzazioni si spostavano sempre più dall’acquistare all’affittare il software, dagli stessi vendor che a loro volta avevano cambiato il proprio modello di business in modo da accogliere tale trasformazione. Era inevitabile fin dall’inizio che il cloud, come modello operativo, sarebbe presto stato adottato dalle organizzazioni come architettura di base per le applicazioni.
Nel tempo, i driver dell’adozione del cloud si sono spostati dal focus sulla riduzione dei costi ai guadagni in termini di agilità e velocità (grazie all’influenza della nascente economia digitale) e le organizzazioni si sono rivolte sempre più al cloud privato (on premise) come soluzione per beneficiare della velocità e agilità senza dover scendere a compromessi rispetto alle esigenze specifiche che aveva impedito il passaggio al cloud pubblico.
L’economia digitale include oggi l’IoT e il suo parente IIoT (Industrial Internet of Things), scenari che stanno esercitando una forte pressione sulle organizzazioni e sugli stessi provider del cloud e, uniti alla crescente attenzione per le prestazioni delle applicazioni in generale, hanno guidato la nascita di un’altra tecnologia ibrida spesso chiamata “colo cloud”, al posto della definizione un po’ troppo lunga, ma più precisa cloud interconnect locations.
Il colo cloud è fortemente in crescita in virtù della sua innata capacità di soddisfare le necessità delle organizzazioni in termini di sicurezza e di controllo (sul lato della “collocazione”), unite alla flessibilità e alla riduzione dei costi del cloud pubblico (sul lato dell’”interconnessione”). Saper affrontare le esigenze primarie di sicurezza e controllo si traduce in migliori prestazioni. Per questo non ho dubbi che il colo cloud continuerà a registrare successi in termini di adozione nei prossimi due anni.
Tutto questo ci porta alla situazione attuale, con forme di cloud multipli nel menu aziendale al quale le organizzazioni possono attingere scegliendo e combinandole tra loro. Ecco perché si tende a dire che “l’ibrido oggi è la nuova normalità”. Anche se forse non si tratta di un uso del tutto corretto del termine “ibrido”, spiega comunque l’idea: le organizzazioni stanno utilizzando il cloud, sfruttandone tutte le tipologie nate negli ultimi dieci anni. E non solo utilizzano il cloud, ma continuano a ritenere che questo abbia un impatto strategico significativo in termini di numeri. Lo conferma la nostra ricerca State of Application Delivery che ha rivelato come il cloud, in tutte le sue forme, sia in cima alle tecnologie che le organizzazioni ritengono avere un impatto strategico sul business. Le applicazioni mobile, un’altra forza dirompente nell’economia digitale (che alcuni ritengono essere in grado di alimentare questa stessa economia), sono l’unica tecnologia non-cloud a emergere nella ricerca. A inizio 2016, il 45% delle organizzazioni ha dichiarato che le applicazioni mobile hanno un impatto strategico maggiore di tutte le varie tipologie di cloud. I dati che presenteremo questo mese mostrano, invece, come nel 2017 questo dato sia sceso al 33% delle organizzazioni, spostando le app mobile sotto le varie forme di cloud.
Il cloud non è più un modello operativo unico il cui archetipo è l’EC2 di Amazon. Negli ultimi dieci anni si è trasformato e ampliato in una varietà di modelli che condividono gli stessi concetti fondamentali di astrazione, automazione, orchestrazione, e utility computing. Ognuno di questi modelli è sorto da necessità specifiche non pienamente soddisfatte dagli altri modelli, e ognuno si è legittimato in una forma alternativa di cloud, strategica e a sé stante.
Cosa verrà dopo? Non c’è da preoccuparsi: gli ultimi 10 anni ci hanno insegnato che una buona idea non può essere contenuta da un modello unico, e che, con l’emergere di nuove sfide, nasceranno nuovi modelli per poterle affrontare.
La diaspora si è compiuta e nel caso del cloud ha comportato conseguenze positive: avere a disposizione molte scelte significa avere maggiore libertà per le organizzazioni, che possono abbracciare la trasformazione digitale senza scendere a compromessi sulle proprie esigenze chiave, sia che si tratti di sicurezza che di prestazioni, controllo o costi. Per tutti questi motivi, ci aspettiamo almeno altri 10 anni di entusiasmante cloud computing!