[section_title title=Cosa si nasconde dentro l’universo dei Big Data? – Parte tre]
Avendo compreso quindi che i big data sono ovunque e che attraverso il data mining abbiamo la concreta possibilità di migliorare qualsiasi performance, dal tuo punto di vista quali sono i settori che potrebbero beneficiarne maggiormente?
Direi tutti, però in particolare genomics, energy, banking, finance e scambi in generale. Il marketing lo utilizza già e continuerà a farlo comunque. Per quanto riguarda invece i settori che ho indicato, nel giro di uno o due anni usciranno degli sviluppi abbastanza importanti. Poi nel lungo termine non ci sarà un settore che non lo farà: dal controllo numerico dei pezzi stampati in una fonderia alle macchine senza conducente.
Riccardo, prima hai accennato al fatto che hai un’esperienza e una formazione molto eterogenee. Quanto sono state importanti per raggiungere il successo?
In Italia, per mille ragioni assurde, abbiamo perso sfortunatamente la correlazione fra l’investimento nell’educazione e la spendibilità nel mercato del lavoro. In gran parte delle nazioni del mondo questo avviene, se studi molto poi arrivano i risultati. In questo settore devi avere tantissima passione, perché tante cose devi impararle da solo la sera. Io ho imparato molto grazie al dottorato che è un percorso educativo che ti concede tanto tempo per te, dove puoi approfondire tantissimi aspetti e hai molta libertà. Per me è stata un’esperienza eccezionale e qui in Silicon Valley non trovi un lavoro di questo tipo se non hai il PhD. Con una semplice laurea puoi sognartelo! Quando ho fatto il dottorato mi è venuta l’idea di applicare i metodi matematici che avevo imparato a meccanica quantistica per un problema completamente diverso: il cibo. A quel punto però si trattava di un’altra applicazione del machine learning, e abbiamo ottenuto dei risultati eccezionali molto in fretta. Forse perché eravamo i primi a farlo.
Un’ultima domanda. Solo vent’anni fa questa intervista sarebbe stata impossibile, non solo perché ti abbiamo contattato via Linkedin e ti stiamo intervistando dall’altra parte del pianeta via Skype, ma soprattutto perché difficilmente uno scienziato avrebbe accettato di rispondere alle domande di un’agenzia di comunicazione. Che peso credi abbia avuto la tecnologia nel generare questa evoluzione nella condivisione orizzontale dei saperi?
Per me è difficile pensare quando non c’era la tecnologia, sono così integrato che la mattina mi sveglio e voglio vedere i miei eventi automaticamente generarsi sul mio calendario dalle mie email. Ormai nel 2015 non ci sono più barriere. Spedisci una mail, ti rispondono in cinque minuti e, se hai qualcosa di interessante da dire, dieci minuti dopo ti propongono un appuntamento e ti ritrovi a fare dei meeting con gente incredibile. Certe volte pensi che raggiungere un contatto sia impossibile, non ti risponderà mai, in realtà i veri professionisti ti rispondono ancora più in fretta degli altri o hanno i loro assistenti che ti rispondono per loro, perché è una dimostrazione di chi sei online. Per quanto riguarda invece la scienza che si racconta al mondo della comunicazione è vero, ma non è necessariamente un male. Certe volte alcune agenzie non capaci di interfacciarsi con gli scienziati, estrapolano dal contesto alcuni concetti, scrivono dei titoli clamorosi e generano delle reazioni complesse poi da fermare. La sperimentazione sugli animali, la genomica, la fertilizzazione in vitro, la modificazione del DNA quando sei vivo… ci sono delle tecniche che usciranno tra qualche anno che ci faranno sobbalzare, e raccontarle in maniera sbagliata può generare un disastro. Adesso però ci sono alcune scuole che si stanno formando proprio sulla comunicazione e la deontologia della scienza, e io ho insegnato in un paio di queste.
Quindi tecnologia “yes, always!”, ma dobbiamo anche imparare a parlare di scienza in maniera veramente eccellente.